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Cataforio cataclismatico catampari u suonu ca a Cataforio, di Maura Gigliotti Sono tra noi, di Alfonso Toscano Parallelo fra la Chitarra Battente e la Viola Caipira, di Raffele Bella Società Italiana Tamburi a Cornice- Una Tradizione Che Unisce il Mondo di Gian Michele Montanaro il sangiullo di Geremia Paraggio intervista ad Alfonso Toscano per il mensile INScena Ciucchelarill' (castagnette), idiofoni abruzzesi di Carlo Lo Cascio Documentario RUTINO: PAESE DEGLI ANGELI Pasqua in Cilento con Etnomalìa di Gianluca Zammarelli Balvano, 3 marzo 1944 di Salvatore Argenziano le confraternite del cilento tra tradizione e innovazione, di Giuseppe Apolito Tra sassi nuvole lire e cieli di Calabria di Maura Gigliotti lo zufolo magico di Carlo Muccio comunicare con l'arte di Antonio Tateo ‘o pullecenella dint' 'o cuppetiello di Carlo Muccio |
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SONO TRA NOI
La
storiella -Chi dovrebbe salvare la nostra cultura cilentana è proprio
colui che l'affossa di alfonso toscano |
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Sono tra noi. Si aggirano fra i vicoli di pietra con fare ora discreto ora visibilmente trendly, eccitandosi alla vista della patina di licheni che a chiazze rivestono le ultime rovine cilentane che, immerse nella guazza mattutina, esalano eccitanti effluvi di abbandono e di stantìo, essenze subito captate dall'EOM2014, l'Esaminatore Olfattivo Molecolare mod.2014 impiantato preferibilmente nel seno paranasale sinistro. Fragranze raffinate e molto apprezzate, roba da veri intenditori, che una volta registrate e incamerate nella Ghiandola Nera potranno, con una precisa contrazione della terminazione muscolare connessa, essere rigurgitate e condivise alle annuali riunioni fra colleghi, suscitando l’invidia e l’ammirazione di questo o quella. Inebriati e ringalluzziti dalle umide rare zaffate di "antichi sapori" esalate dai licheni, con fare indifferente e casuale i cyborg si dirigono verso l'abitato seguendo lunghi e volutamente incerti percorsi a spirale, puntando poi, raggiunte le prima case, prima sul bar "centrale", distribuendo sul bar "centrale", distribuendo pacche, inchini e caffè che irrimediabilmente dimenticano di pagare, spingendosi poi negli altri punti di ritrovo: sagrati, giornalai, androni, capannelli, cortili, botteghe, portoni, soprattutto portoni. È soprattutto nei pressi dei portoni che spesso scatta nella membrana auricolare il ronzio del RITT, Rivelatore di Tracce di Tradizioni, che accelerando il ritmo segnala irrimediabilmente la presenza di qualche rimasuglio di Identità Locale, silente ma pericolosissimo, sfuggito chissà come a qualche distratto o demotivato collega impegnato nelle precedenti campagne RD, le sistematiche campagne di Ricerca e Distruzione indette periodicamente dall'UNPLI , l'UNitá per la Liberazione dalla Identità, la temibile organizzazione dalla quale dipendono i Comitati per la Ricerca e la Completa Distruzione delle Ultime Tracce di Identitá Locale. È allora che il sistema RITT, annotate le coordinate del bersaglio nella memoria di massa sottopelle, proietta sulla retina e mette a fuoco la traccia rilevata, sia essa un piccolo oggetto, un termine dialettale, una formula di rito, i residui di una prassi, il frammento di un canto, un uso locale, una soluzione architettonica, una cultivar, una pietanza, un manufatto. I dati relativi alla rilevazione dell’Ordigno Silente vengono automaticamente inviati al computer centrale cui resta il compito di elaborare la strategia più efficace da mettere in atto per distruggerlo definitivamente con una percentuale di probabilitá pari al 100%. Il rischio che residui anche minimi, molecole di Identità, letale retaggio di valori universali possano col tempo germogliare e maturare diffondendosi fino a mettere in pericolo la civiltá del nulla risvegliando le coscienze sopite è troppo alto. Inaccettabile. Le istruzioni per la distruzione totale della Traccia quindi verranno immediatamente diramate agli Agenti: parroci, assessori alla cultura, presidenti di proloco, organizzatori di eventi, volontari a vario titolo, sindaci, assessori alla identità locale, menagèr, associazioni per il territorio, onlus, cooperative, comitati per la difesa del territorio ecc.., che in queste occasioni fanno a gara nel mettere sul campo il loro Agente Migliore, novello Terminétor. Le istruzioni sull’adozione della soluzione finale che l'Agente riceve sono sempre meticolose e dettagliate ed in ogni caso prevedono un piano di emergenza nell'eventualità, molto rara in verità, che la Traccia sopravviva indenne al primo attacco. Sempre più spesso accade che le informazioni elaborate dal cervellone centrale dell'UNPLI vengano trasmesse in tempo reale all’Agente competente per il territorio che provvede immediatamente, personalmente, senza bisogno di aiuto esterno, alla distruzione del bersaglio secondo le istruzioni ricevute. È questo il caso sempre più frequente che si verifica quando si rilevano Tracce e Residui labili, apparentemente innoqui, eterei, giá moribondi, per i quali è sufficiente un soffio, un battito di ciglia, il rilascio di un clone più vitale, un rumore, uno scalino, una impercettibile spintarella, a volte una pietosa eutanasica carezza, a decretarne la cancellazione sempiterna e irreversibile dall'irripetibile patrimonio immateriale dell'umanità. Alfonso Toscano |
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Parallelo fra la Chitarra Battente e la Viola Caipira, di Raffele Bella |
Nei secoli, gli strumenti a corda hanno percorso distanze enormi.Sono fioriti sotto l’Himalaya e hanno lasciato tracce ovunque. Si sono incontrati, influenzati tra loro, come la nostra chitarra battente e la viola brasiliana. Un racconto on the road dal Mediterraneo alle spiagge di Rio Eterni viaggi sulla corda Probabilmente c’è del vero nell’asserzione ad uso di alcuni etnomusicologi sul viaggio metaforico degli strumenti a corda. Fioriti sotto l’Himalaya, hanno proseguito lasciando tracce dappertutto, dall’Azerbaijan alla Mongolia fino al Mediterraneo e, nel corso dei millenni, hanno fatto una tappa particolarmente significativa nelle periferie di Rio de Janeiro e Buenos Aires. Difficile non riconoscere il ruolo attuale della chitarra, legittimamente considerata l’interprete, ovvero la mediatrice e il traduttore ufficiale di una immensa varietà di musiche, originariamente di cordofoni e che ora, trascritte, costituiscono un tratto d’unione nel XXI secolo tra ancestralità e contemporaneità. All’insegna di una vitalità e ricchezza di proposte edificante, che coinvolge, in un gioco planetario di rimbalzi e geografie dilatate, Africa, Americhe, Asia e Europa. Ad esempio, è nota la provenienza della chitarra battente dalla chitarra a dieci corde barocca, diffusa intorno al XVIII secolo anche a Venezia, e trasformata in una versione popolaresca di sole quattro o cinque corde doppie-cori- o corde singole del Sud. Le due cugine, viola caipira e chitarra battente, nate da radici comuni, si assomigliano molto sia dal punto di vista organologico, sia nei repertori; sia nella sonorità sia nelle tecniche esecutive, ma più di qualunque altra considerazione, nell’affinità dei ruoli che svolgono nei loro rispettivi contesti. Tratte da un saggio del performer ed educatore musicale Gianluca Zammarelli ( www.gianlucazammarelli.net ) ecco alcune note essenziali su quest’Italia profonda che a buon diritto può, al pari del Brasile del violero brasiliano Roberto Corréa- la geniale definizione è sua- anch’essa definirsi “recondita”. “La chitarra battente- sostiene Zammarelli - è uno degli strumenti italiani meno conosciuti e meno studiati, persino la zampogna è ancora presente…. Il paragone con quest’altro arcaico strumento della tradizione non è affatto assurdo, basti pensare che spesso suonatori\ costruttori di zampogne erano anche suonatori\costruttori di chitarra battente, Parallelamente al declino della chitarra battente nelle fasce rurali, si rileva un progressivo interessamento dei più giovani verso questo misterioso e multiforme strumento. Del resto “sona chitarra mia sona a battente”, recita un verso di una serenata diffusa in varie zone dell’Italia del sud; sebbene in anni passati alcuni ricercatori abbiano riferito il termine battente anche alla particolare costruzione del piano armonico a due ente, a battente appunto, in realtà è preferibile la prima definizione, supportata da quel verso così chiaro; battente si riferisce al modo di suonare, appunto battendo, percuotendo le corde e persino il piano armonico, questo intendevano i cantori tradizionali, i quali restano i nostri principali referenti.. ovviamente se chiediamo a uno di loro il motivo, ci risponderanno” perché è così e basta!” “Chiaramente per molti anziani e cantori la chitarra battente era la chitarra tuout-court e ciò spiegherebbe perché la chitarra classica era chiamata francese, e questo chiarisce ancor meglio perché molti suonatori, non potendo più reperire una chitarra battente, ne adattavano una francese, quella che si trovava, magari di compensato o del nipotino, alla normale accordatura della chitarra battente, tanto indispensabile per certi repertori tradizionali. Occhio alle frequenze La particolarità dello strumento consiste nell’utilizzare tutte corde dello stesso spessore, di calibro molto sottile, e di avere un’accordatura che,in gergo, si dice incrociata, che no segue, cioè, l’ordine delle frequenze. Il numero delle corde varia da 4 a 12, legate su piroli di legno, ma quello che è importante è che veniva accordata secondo la voce del cantore. I legni più utilizzati sono: abete, acero e ciliegio per il piano armonico, noce, betulla, acero, pero, melo, mogano per fasce e fondo; spesso veniva usato il compensato. Per la tastiera il palissandro oppure lo stesso legno del manico, essendo la tastiera in linea con il piano armonico. Le misure variano a seconda della zona di costruzione, a partire da una forma di otto allungato derivante dalla chitarra barocca, fino a forme più compresse nel Gargano, a forme più ridotte che si chiamano chitarrino in Calabria, oppure chitarre giganti sempre in Calabria. Tradizionalmente la chitarra battente viene usata come accompagnamento al canto e per la tarantella, occasionalmente sono stati segnalati repertori spuri quali valzer, polche e mazurche. “Durante i corsi di chitarra battente presso il circolo Gianni Bosio di Roma, ho potuto sintetizzare un metodo di esecuzione più frequente rispetto ai numerosi stili incontrati in Cilento, Calabria, Gargano. Ad esempio ho suddiviso la tecnica della mano destra in due parti “ a battente”in cui la mano destra percuote in senso ritmico le corde dall’alto verso il basso con il dorso delle dita e con il pollice; e a “a terzina” in cui l’indice, il medio e il pollice (ma anche solo indice e pollice) suonano una terzina sulle corde. Il modello di chitarra battente cilentana appare molto simile a quello calabrese, anzi non è escluso che abbiano avuto reciproche influenze se è vero che lavoratori carbonari stagionali si scambiavano tra Cilento e Calabria, tuttavia la somiglianza più grande è nel repertorio mutuato dalla zampogna, strumento tuttora presente in Lucania e in Calabria. Nel Cilento la chitarra battente viene impiegata in due suonate principali: il canto alla cilentana e la tarantella. Nel canto alla cilentana l’accompagnamento è a pastorale come per la zampogna. L’America del Sud ha senz’altro avuto influenze iberiche e indirettamente arabe e soprattutto in Brasile esiste una chitarra che ha caratteristiche incredibilmente simili alla chitarra battente, tanto che dalla ben nota emigrazione italiana nel sud-america entrarono in Italia alcuni strumenti locali perfettamente adattabili come chitarre battenti, cosa accaduta a un suonatore del Gargano. Ugualmente moltissime chitarre battenti furono spedite nelle comunità estere e non è escluso fossero utilizzate da suonatori del luogo. DISCHI E LIBRI Ecco alcuni dischi e libri da tenere d’occhio: Rilevante Tracce di Antonello Ricci, Gianfranco Preiti (Sudnord re. 1987 ). Con la collaborazione di Paolo Modugno e del percussionista Roberto Capacci, è considerato un raro esempio di contaminazione-derivazione dalla musica etnica del Sud Italia, presente nell’archivio di chi scrive. A catarra d’ò vino, è non solo l’espressione con cui si designa in modo tradizionale la chitarra battente, spesso destinata a situazioni conviviali, è stata scelta anche opportunamente dal chitarrista e etnomusicologo Valentino Santagati di Reggio Calabria, come titolo del suo libro, insieme a Anna Cinzia Villani, per l’editore Geos City Book- Udine 2005. Il libro ha un precedente nel 2001, Quattro corde e un terzino- Suonatori e repertori nell’’area di diffusione più meridionale della chitarra battente. Nell’insieme i due libri propongono una visione esauriente dal punto di vista scientifico e politicamente corretta circa l’atteggiamento nei confronti della cultura popolare e contadina, resa, con dovuta ironia, dopo decenni di manipolazioni, sia pure operate, talvolta, in buona fede………… Senza giri di parole gli autori rivendicano un atteggiamento radicalmente diverso da quello di tanta etnomusicologia paludata e sostanzialmente colonialista, dove l’esperto di turno - che con un gioco di parole non del tutto fuori luogo sarebbe da definire più un “esterno” - carpiva dai cosiddetti “informatori” una frettolosa intervista e una registrazione. I due ricercatori calabresi rovesciano questa situazione verticale e autoritaria, e propugnano, all’opposto, convivenza e convivialità con i musici e i cantori, validamente documentate nei due cd che accompagnano il libro, pure corredato di numerose ed eccellenti foto, per niente sospette di oleografie e sentimentalismi paleo-antropologici, e che al contrario ritraggono la semplice e quotidiana realtà degli artisti genuinamente popolari. Infine va segnalata la figura del chitarrista e liutaio Alfonso Toscano che divide la sua attività tra Roma e il Cilento. Una caratteristica degli strumenti che produce è la rosa orlata di un piccolo merletto; in tal modo Alfonso propone anche un ruolo femminile nel revival della chitarra battente ( www.alfonsotoscano.it ). la viola caipira Un punto però è a favore della viola brasiliana; pur appartenendo, insieme ad altri strumenti, come per esempio la rabeca - violino arcaico di discendenza portoghese - all’ancestralità risalente al periodo coloniale, e quindi di diretta discendenza da strumenti medievali e rinascimentali, viola e rabeca non sono per niente roba da museo. Questi antichi strumenti sono più che mai vivi e vitali nel Brasile-universo musicale, di certo più della cugina italiana, che solo negli ultimi anni sta conoscendo un incoraggiante revival che ha preso le mosse dalle indagini dell’etnomusicologo Diego Carpitella che, a partire dagli anni ’70, ne è stato un promotore di primo piano. Ma non si può raccontare la viola senza tener conto della caipira. L’origine controversa del termine va molto oltre l’ambito della ricerca etno-musicale, nel “colosso latinoamericano”, ancora prevalentemente rurale, descrive un’appartenenza identitaria e artistica. Tratta dalle note che accompagnano l’eccellente cd del violero e ricercatore permambucano Gilvan de Oliveira, secondo alcuni significa “abitante della foresta”, per altri “tagliatore della foresta” ovvero boscaiolo, ovvero deriva da caipora, personaggio immaginario della mitologia amerindia. “Designa un modo di essere - prosegue il violero permambucano - canta spesso la vita semplice della gente semplice, le sue storie, i suoi problemi, i suoi luoghi, le sue feste e le sue leggende; la parola è arrivata ai grandi centri urbani, influenzando tutti, perché in un certo senso tutti siamo un po’ caipiras e caiçaras (il termine caipira, nel linguaggio corrente, sfiora i limiti dell’insulto, equivalente in italiano di “burino” ,“cafone” e simili, caiçara è l’abitante delle selve o della costa, pescatore o boscaiolo nomade di cultura nativa, n.d.a.) Tra le numerose varianti della viola, si ricordi che esiste anche la viola de cocho, versione arcaica diffusa, per esempio, nel Pantanal Matogrossense, caratteristico esempio di persistenza musicale, notoriamente più frequente nelle aree povere e arretrate. Non sembra quindi azzardata la conclusione di de Oliveira quando dice che “a musica caipira è a musica popular brasileira” esemplare asserzione per semplicità e perspicacia, oltretutto confortata dall’autorevolezza, guadagnata in vari decenni di eccellente lavoro, della casa discografica Kuarup , fondata da Mario de Aratanha. I cantautori nordestini Zeca Baleiro e Mestre Ambrosio sono tra i principali esponenti della nuova onda, che coniuga in pastiches di grande successo sonorità sertaneja e suoni planetari, ed a tutti noto il nome, tra i personaggi storici, della grande violera Inezita Barroso, recentemente scomparsa. Tornando all’essenza della caipira è importante la figura di Renato Andrade di Belo Horizonte, un signore con una sorprendente padronanza dall’italiano, appreso per amore della lirica. La copertina di uno dei suoi famosi cd raffigura due personaggi: un campagnolo a piedi scalzi, un piao, con un cappellaccio di paglia, camicia aperta e pantalone da agricoltore nordestino, che osserva insospettito un signore dall’eleganza inappuntabile, che stringe una chitarra da concerto; ma guardando bene, ci si accorge che i due personaggi sono uno solo; Renato de Andrade. La provocazione della copertina del disco ha un significato trasparente: il transito, l’osmosi continua, fatto storico e strutturale, presente in tanti aspetti della musica brasiliana, dall’ambito popolare a quello colto e viceversa. Non solo siamo quindi in presenza della genuina colonna sonora del serto, ma il violero rende esplicito, nel titolo della prima traccia, Renato e o Satanàs, uno dei temi poetici e letterari ricorrenti, appunto, anzi motivo conduttore di una delle maggiori opere letterarie brasiliane moderne, un libro-immagine: O grande sertào- Veredas di Joào Guimaràes Rosa, un lungo monologo alla James Joyce dove un jagunço, soldato di ventura narra in prima persona la sua vita errabonda in un immenso spazio semiarido, che è nel contempo spazio metaforico, interiore, dell’immaginario collettivo; da sempre luogo di miracoli, spettri, leggende, fantasmi e apparizioni, dove financo è accertata una riconoscibile presenza arabo-musulmana in alcuni toponimi, come il famoso sertào de Caicò, cantato da Milton Nascimento. Una vita legata al filo dell’alea, di guerre senza fine, che costellano l’eterno vagabondare in quello spazio immenso, e forse proprio per questo accompagnata dalla consapevolezza di un possibile mondo parallelo, invisibile, onnipresente e sovrannaturale: la presenza del male e il suo impatto sulle vicende umane. Fondamentale anche Roberto Nunes Conèa, classe 1957, nato a Minas Geraes; tempo fa ci raccontava di suo nonno, personaggio conosciuto e rispettato per la sua rettitudine, oltre che per il dono di saper suonare magistralmente la viola caipira. La sua integrità, unita al suo dono artistico, gli aveva ispirato una toada, una composizione musicale e poetica contro gli imbrogli elettorali nella comunità rurale in quel di Campina Verde, all’interno dello stato di Minas Geraes, in un mondo ancora arcaico, afflitto dal medievale dispotismo del sistema dei latifondisti, i coroneis- i cosiddetti “colonnelli”- narrati da Jorge Amado. IL suo coraggio gli sarebbe costata la vita, ma il ricordo di lui accompagnava, insistente e fluttuante, il pensiero semi-conscio del giovane Roberto, all’epoca un promettente fisico nucleare. Ma non servì tentare di sfuggirle; narra Corrèa “Era come se la dannata mi stesse aspettando nella vetrina di un negozio”. Infine nel 2002 ha dato alle stampe un trattato organologico, didattico e etnomusicologico, munito da un cd, verosimilmente la maggiore e più aggiornata opera teorica sulla viola brasileira ( Editoria Violacorrèa- Produçoes- Artististicas, pgg 259). L’autore sceglieva il termine “pontear”, “suonare ad appoggiatura”, valorizzando sofisticamente le note singole, in contrapposizione con le varie tecniche di accompagnamento, segnatamente la percussione ritmica delle corde, il rasquero, una tecnica notoriamente derivante dal flamenco, quasi a voler esplicitare l’arte- appunto- di suonare sofisticamente la viola, come una dichiarazione di qualità virtuosistica artisticamente distinta e superiore. Molti i riferimenti nel testo al rarissimo studio del professor Alceu Maynard se Araùjo, datato 1058-59, in cui è possibile distinguere cinque tipi di viola a seconda di cinque diverse appartenenze territoriali: paulista, goiana, cuiabana, agrense, nordestina. Altre coordinate provengono e si combinano con i criteri proposti da Corrèa, articolate su tre diversi sistemi di accordature, alcune delle quali comuni alla chitarra battente: accordature nella regione interiorana Centro-Sud; nella regione Nordeste, e nel litorale Sud. In conclusione va ricordato che la viola è diffusa -come da disegno- dell’amico etnomusicologo prof. Hèlio Sena de Oliveira, risalente al 1988, a Cinelandia, centro storico di Rio de Janeiro- in un’amplissima area del Brasile. Non solo: ancora una volta una rapida indagine in parallelo tra due aree geograficamente lontane, Italia e Brasile, rivela due punte di un iceberg sonoro, che sfiora le sponde di due oceani. E’ evidente l’affinità su vari piani di viola brasileira e chitarra battente, le loro comuni origini, e lo sfondo sul quale hanno intessuto secoli di storia culturale, fino a incontrarsi di nuovo, delineando soprattutto un’idea di musica popolare vera. Raffaele Bella da ALIAS, supplemento al Manifesto del 27 gennaio 2007, Anno 10, n.4 (439) |
SOCIETA’ ITALIANA TAMBURI A CORNICE- Una Tradizione Che Unisce il Mondo |
“Società Italiana Tamburi a Cornice” la prima Associazione di Promozione Sociale che crea una rete integrata nazionale intorno allo strumento più antico d’Italia. La reale necessità di un’associazione specifica che nel dettaglio si interessi di tamburi a cornice, in Italia non c’è. Effettivamente non c’è, tenendo gli occhi chiusi ed evitando di sentire suoni e voci di una terra che si riappropria della propria cultura popolare, della propria cultura tradizionale. Se non mi guardo attorno e se non ascolto la musica, le voci e soprattutto la necessità di tornare a rendere mio un linguaggio altro che è quello universale dei suoni, per anni violentato da mediatiche proposte di esoticismi di bassa qualità, evito di entrare in contatto con i 2.500 anni di storia che tra contaminazioni e tradizioni sono rappresentati in ogni dove, dalla Galleria degli Uffizi al salotto di casa dei comuni cittadini, dalle orchestrazioni di Rossini, alla zampogna del pastore. Questa è una grande ricchezza, una ricchezza incommensurabile, pari al Colosseo che il romano non visita mai perché è abituato a vederlo in quanto è lì, tutto sommato è suo da quando è nato. Questa ricchezza riconosciuta come patrimonio UNESCO è la tradizione del tamburo a cornice in Italia. Il tamburo a cornice italiano nell’arco della sua storia ha conosciuto la buona e la cattiva sorte, passando dall’assoluto riconoscimento sociale al totale disinteresse collettivo, è fortunatamente sopravvissuta fino ai giorni nostri con tutta la sua forza e le sue differenze. Sono proprio queste ultime che rendono il tamburello in Italia uno strumento di straordinario interesse e che fanno sì che tale area d’indagine sia, ancora per gran parte inesplorata dal grande pubblico. Il tamburello è di gran lunga il membranofono più diffuso ed importante della tradizione italiana, esso è oggi ancora costruito e utilizzato secondo le norme tradizionali in tutta l’Italia centrale e meridionale. Ad una così vasta diffusione corrisponde un’altrettanto vasta varietà di tecniche e diteggiature con cui viene suonato, addirittura suonatori delle stesse comunità applicano tecniche di esecuzione differenti tra loro. Questa grande diffusione ovviamente non è cristallizzata in dei confini ma come tutta la tradizione è soggetta al dinamismo del costante scambio tra le differenti culture e così, tutt’oggi, dove fino a qualche anno fa l’uso del tamburello era completamente estinto, esso tende a ritornare con forza. Se allargando lo sguardo non si osserva solo tale realtà si riesce a percepire che quello che troviamo in Italia, con livelli e con valenze differenti, lo troviamo in tutto il mondo e senza dover attingere informazioni a studi dettagliati e specifici, si denota subito un magnifico panorama racchiuso nella grande famiglia dei tamburi a cornice a cui si legano le più diverse etnie e culture e a cui si legano le più disparate tradizioni sia religiose che pagane. È partendo da tali presupposti che a Roma nell’Aprile del 2009 è nata l’Associazione di Promozione Sociale “SOCIETA’ ITALIANA TAMBURI A CORNICE” che senza fini di lucro opera per fini di solidarietà sociale rivolgendo particolare attenzione a tutte le attività tradizionali ed in particolare a quelle legate al mondo dei tamburi a cornice ed ha per scopo l'attuazione di iniziative socio educative e culturali. Lo spirito e la prassi dell'associazione trovano origine nel rispetto dei principi della Costituzione Italiana che hanno ispirato l'associazione stessa e si fondano sul pieno rispetto della dimensione umana, culturale e spirituale della persona.
Essa è
composta da percussionisti, musicisti, docenti, compositori,
costruttori, organizzatori di eventi e soprattutto semplici appassionati
uniti dal comune amore per i tamburi a cornice e le tradizioni
attinenti. Istituisce un sito web e relativa pagina myspace e diffonde, a mezzo bollettino informativo a tutti i membri dell’associazione, articoli di percussionisti professionisti, cronache di eventi passati e futuri e soprattutto si propone di dare spazio a tutti coloro i quali vogliano contribuire all’effettiva crescita e diffusione della cultura dei Tamburi a Cornice in Italia. Gian Michele Montanaro
INFO se vuoi
saperne di più:
soc.ita.tamburiacornice@gmail.com |
Il “sangiullo” di Geremia (da un intervista di Alfonso Toscano a Geremia Paraggio) |
Erano gli anni dell’immediato dopoguerra. Dopo la scuola passeggiavamo con gli amici, a Montecorvino Rovella, e quando la primavera cominciava a esplodere immancabilmente ci recavamo lungo un viale fiancheggiato da alberi. In quel periodo dell’anno i fusti di castagni, pioppi, salici, fichi e tanti altri erano circondati alla base da polloni e per noi era facile scegliere quello che ci sembrava più adatto, per il nostro sangiullo sceglievamo sempre il salice, o il pioppo. Doveva essere della dimensione circa di un dito e della lunghezza sufficiente a ricavarci lo strumento. Una volta individuato il pollone che ci appariva giusto lo recidavamo con il nostro coltellino e lo tagliavamo verso la cima, per ricavarne un pezzo della lunghezza opportuna, e si procedeva alla “toma”. Questa era una operazione delicata che si svolgeva sul posto, cosicché se non fosse riuscita si provvedeva facilmente a scegliere un altro pollone, per la verità tutte le operazioni per la realizzazione del sangiullo erano estremamente delicate ed il pericolo di fare un errore, irrimediabile, era sempre in agguato …ma per noi era un gioco, un passatempo, un “rito” ludico legato al ciclo delle stagioni, ma noi non lo sapevamo, …per noi era solo un gioco. La toma consisteva nel torcere con le mani il piccolo virgulto, per tutta la sua lunghezza, con lo scopo di staccare la sottile corteccia dalla verga, con pazienza e destrezza, come avevamo “sempre” visto fare da qualche compagno, o da un adulto, zio, padre, nonno ecc.. Nel momento in cui al corteccia iniziava a staccarsi si cercava di estrarre il piccolo fusto dal lato più spesso, essendo esso impercettibilmente conico, anche afferrandolo con i denti e tirando, ma sempre con una rude delicatezza. Una volta che la “toma” era riuscita si infilava di nuovo il fusto nella corteccia, in modo che il tutto non si danneggiasse, e potevamo allontanarci dal luogo per svolgere le successive operazioni in un posto più comodo, per esempio seduti su un muretto, un sasso, un gradino. La successiva operazione consisteva nel fare la tacca della “finestrella”, quella apertura dove il soffio, infrangendosi, produce il tipico suono. Fatta la finestrella si estraeva di nuovo il fusto e si provvedeva, sempre con il nostro fedele coltellino, a rimuovere sia la tacca sulla corteccia e sia la parte di fusto su cui era segnata la sagoma da asportare, poi si provvedeva a realizzare il canaletto di insufflazione sempre asportando una parte del fusticino, e solo dopo si passava all’operazione che forse richiedeva più attenzione e perizia: i fori per le note. Anche questa operazione avveniva con il fusto inserito nella corteccia e sempre con il coltellino, i fori però erano quadrati e si provvedeva a rimuovere il quadratino di corteccia prima di estrarre di nuovo il fusto per l’ultima operazione, il taglio di questo all’altezza della finestrella. La “vrola” così rimasta veniva inserita nell’imboccatura ed ecco fatto, lo strumento era pronto. A volte si riusciva ad ottenere uno strumento intonato ma comunque nessuno era uguale all’altro, e si faceva a gara con gli amici a chi otteneva “ o’ sangiullo “ più sonoro e intonato. Questo si poteva usare tranquillamente per una giornata prima che la sottilissima corteccia si seccasse e spaccasse rendendo lo strumento inservibile, ma si tendeva ad allungargli la vita con diverse attenzioni, come tenendolo all’ombra o mettendolo per qualche ora in un secchio d’acqua. Geremia Paraggio, in esclusiva per www.alfonsotoscano.it 9 aprile 2009 |
intervista ad Alfonso Toscano per il mensile INScena
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domanda: - Secondo lei "musica etnica"
è ormai etichetta di un risposta:
Non mi intendo di “musica etnica”. La mia esperienza si
fonda su una limitata conoscenza della musica e delle espressioni
legate alla tradizione orale del centro-sud, che sopravvivono vive e
vegete molto più di quanto il mondo accademico e gli etnomusicologi
vogliano far credere, salvo poi “rivelare” che si è miracolosamente
documentata l’esistenza della “tarantella cumpricata su una gamba”
nelle loro bellissime pubblicazioni ad uso dei malcapitati appassionati
di “musica etnica”.. sono convinto che l’attaccamento di un popolo verso le proprie tradizioni sia vissuto allo stesso modo in ogni area d’Italia pur manifestandosi in maniera diversa da un luogo ad un altro -Quest'anno Eugenio Bennato
sarà a Sanremo con una Data la nota impostazione del festival, votato al business ed allo spettacolo di massa e quindi molto poco attento al contenuto, sono convinto che, al di là di quello che il pubblico riuscirà a recepire, gli autori del festival non faranno nulla per trasmettere il giusto messaggio, che sarebbe comunque difficile trasmettere in un contesto del genere. -Qual è, per quella che è la
sua esperienza, Se per genere etnico intendiamo la musica di tradizione orale, per esperienza personale posso dire che, contrariamente a quanto si possa pensare (ed a quanto io stesso pensavo prima di dovermi ricredere) e soprattutto in alcune aree del sud, il genere etnico non solo è molto sentito, ma è recepito nel modo giusto: non spettacolo, non arte, ma momento di socializzazione, di riconoscimento reciproco, di dialogo tra generazioni, di riflessione sulle proprie origini e questo sia per gli anziani che ancora più spiccatamente per i giovani -I musicisti più giovani hanno
interesse verso lo studio Spesso chi si avvicina agli strumenti musicali della tradizione non ha alcuna conoscenza musicale e vi si avvicina per trasferimento diretto e orale delle conoscenze, che è poi il tradizionale metodo di trasmissione della cultura popolare. La mia esperienza si limita alle aree dell’italia centro-merdidionale e per quanto riguarda queste aree ho rilevato personalmente un interesse inaspettato nei giovani, che mi ha profondamente colpito e mi ha incoraggiato nella mia opera di diffusione e rivalorizzazione degli strumenti musicali della tradizione in generale ed in particolare della chitarra battente “povera”, quella costruita dagli artigiani e che fino a prima del 2° conflitto mondiale si trovava spesso nelle case dei contadini, appesa al muro accanto alla roncola e al setaccio del grano -Secondo lei, le scuole di
musica, le varie accademie sparse Lo studio della musica di tradizione è quasi del tutto ignorato dagli Enti preposti all'insegnamento musicale. Eppure nessuno è ancora riuscito a dimostrare che il Gloria di Montedoro o i canti a tenores o le polifonie della etnia albanese abbiano un valore culturale inferiore alla nona di Beethoven -Il nostro mensile si rivolge
all'arte emergente, e spesso La motivazione che dovrebbe spingere i giovani alla ricerca della tradizione musicale delle proprie aree di origine è la certezza che la propria tradizione è un bene preziosissimo in quanto rappresenta la propria identità, e la tutela dell’identità è alla base della sopravvivenza del nostro patrimonio culturale. Alfonso Toscano, marzo 2008 |
idiofoni abruzzesi: Ciucchelarill' (castagnette)
Strumenti idiofoni negli Abruzzi ce n'è un'infinità : struwelatur (l'asse per lavare i panni), lu copp' (si usa in cucina, ma anche per ballare!), accjiarin' ecc. ecc. ecc. Possono mancare le castagnette? ( a questo proposito cito la bella monografia di Silvio Pascetta nel volume "Suoni che tornano" dove, tra gli altri, sono citati due esempi di castagnette rudimentali) Che vengano usate è un dato di fatto. Quello che non mi risulta (per quanto ne sappia io) è che siano associate in modo specifico a qualche particolare tipo di danza regionale (sarebbe da verificarne un eventuale uso nella Cott').Mi spiego: la tarantella napoletana prevede l'uso delle castagnette da parte dei ballerini, come il ballo flamenco prevede l'uso delle castanuelas fra i danzatori. Ballarella, saltarella, spallata, ijsciana ecc. prevedono l'uso degli strumenti solo da parte dei suonatori e,quindi, la tipologia strumentale usata risulta meno codificata e più varia!Nessuno si scandalizza in Abruzzo (ma questo vale per altre regioni..) se il canto di questua di S.Antonio viene portato accompagnandosi con le nacchere importate dalla Spagna e la chitarra folk con l'incatenatura Martin!! Fino ad ora, purtroppo, non sono entrato in possesso di strumenti o fotografie d'epoca che rivelino una particolare modalità costruttiva - ammesso che sia esistita - rispetto al gusto o alla fantasia dei singoli artigiani; posso invece fornire un interessante contributo di natura.. etimologico-linguistica.L'abruzzese (inteso come idiomi dialettali) prevede almeno due sostantivi per designare le castagnette, i quali si dicostano molto da quelli usati nel resto del Centro e del Sud. Con rifer. a D.Bielli nel suo vocabolario abruzzese ed. 1930 (una ristampa recente è della Editrice A. Polla), che li traduce senza equivoci con l'italiano "nacchere", si ha:1. frentano : ciucchelarill' f. pl. 2. prob. aquilano : guaccola, gnaccola f. pl.Il termine aquilano-marsicano (secondo me onomatopeico) è usato anche nelle zone laziali confinanti ,nelle provincie di Rieti e Frosinone. Riguardo al termine frentano c'e da fare qualche considerazione in più.Premetto, a questo punto, che non sono ne' un glottologo ne' un linguista (nel senso non triviale del termine....) per cui le considerazioni che seguono sono opinabili e verificabili da chi ne sa più di me. Ciucchelarill' è il diminutivo-vezzeggiativo plurale del sostantivo CIOCCH(E)L(E) la cui traduzione in italiano è:Ciocchel' = conchiglia (senso assoluto) " = frutto di mare - es. vongole, cozze ecc.- (senso generale)" = cosa inutile, mal funzionante, cianfrusaglia, carabattola (senso lato, dispregiativo) Ora, è un pò controsenso usare un vezzeggiativo per un termine dispregiativo, mentre esiste, e si usa proprio con questo scopo, il diminutivo (ciocchelett', ciucchelarijj').Dovendo, cioè, tradurre letteralmente in italiano il termine ciucchelarill' non rimane che la scelta: conchigliette!!In effetti tra le forme della natura che richiamano la coppia di castagnette (o nacchere) ci sono proprio le castagne e... le conchiglie! Leggendo le e-mail pervenute a "la chiazza" vengo a scoprire da Giancarlo del Molise (è un caso?) che naqqar è il nome di una varietà di conchiglie usate, originariamente, per il nostro strumento.......bhè, direi che la cosa si fa interessante... - inviterei Giancarlo, a questo proposito ad approfondire le sue ricerche in merito nella sua zona visto che storicamente,culturalmente e geograficamente si compenetra in quella presa da me in esame - A bruciapelo domando a mia madre ( L. Cellucci, classe 1921 ) : - Oh mà, cch' jè li ciucchelarill'? -Risp.: - ...Ciucchelarill'...Jem' a 'ccattà li ciucchelarill' a Sand'Ggidije!!* ...Jè rrobbe ca se sòn',.. pazziarell'..., che sse sòn'... - * S.Egidio è un'importante festa a Lanciano nella quale la tradizione vuole che, tra le altre cose, ci si regali a vicenda delle campanelle di coccioPuò anche essere che, vista l'età, si sia confusa con ciufelarill' (fischietti e flautini di canna) che all'epoca e fino agli anni '60 pure si vendevano alla fiera... Mi consolo pensando a quanti ultraottantenni partenopei siano in grado di dirmi come si tengono in mano le castagnette!Ma......jè rrobb' che sse sòne !! Carlo lo Cascio
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PASQUA IN CILENTO
con Etnomalìa Tra suoni rurali e freddo dal monte di Novi Velia…..un resoconto La pasqua trascorsa, arrivata in anticipo per motivi ancora per me oscuri, ha visto realizzato un evento unico per certi versi, sia perché non era proprio un festival, o proprio uno stage, o proprio una sagra, sia per il periodo e il luogo inusuali: la Pasqua e il Cilento. Infatti se è vero che esistono 2 festival (ANTICHI SUONI a Novi Velia e LA FERA DELLA FRECAGNOLA a Cannalonga in settembre) in cui quasi naturalmente si può sentire la tradizione musicale cilentana, è anche vero che nel Cilento vige l’antichissima malattia che rende cechi davanti alle verità, sia culturali, sia folkloriche sia storiche, infatti la tendenza al folklore più macchiettistico, inventato dalla mancanza di conoscenza o memoria, ha fatto sì che oggi l’Italia non sa ancora dove collocare il Cilento: verso il napoletano?verso i fasti borbonici di Salerno? Verso i pastori lucani?verso la Calabria fiera? Oppure verso l’indistinta area priva di tradizioni che pure ha compreso alcune regioni Italiane, forse mal indagate o mal sviluppate. Di fatto grazie ad alcuni giovani presenti sul territorio e al mio impegno come ricercatore e come amico sincero di tanti anziani, a dir la verità ancora zompettanti, abbiamo riesumato la realtà musicale e culturale del Cilento, non solo, abbiamo cercato di dare dignità alla DANZA vero veicolo di sentimenti e rapporti di ogni area del mondo. Abbiamo potuto fare questo seguendo un semplice metodo: 1) rispetto per l’anziano come persona non solo come “produttore” di tradizione 2) condivisione del suo stesso sentire in quanto anche noi musicisti 3) domande aperte su tutto un mondo tradizionale ormai estinto 4) e soprattutto senza pregiudizi e senza mettere in bocca alla persona per forza il nostro punto di vista purtroppo nel Cilento molti giovani hanno una idea falsata della tradizione cilentana, per chiare vergogne verso un mondo passato, certo poverissimo, attraversato da tensioni sociali enormi, tranciato dall’emigrazione interna ed estera, tanto che oggi gli stessi giovani suonano l’organetto abruzzese (non cilentano), molti suonano la chitarra battente a 10 corde (non cilentana a 4 corde), addirittura alcuni comprano zampogne molisane non sapendo che il Cilento è una delle zone centrali della zampogna lucana, altri cantano canzoni cilentane “arrotondate” in dialetto salernitano se non napoletano, stravolgendone le modulazioni e rendendole canzonette. Questa, volenti o nolenti, non è la verità e comunque sappiate che quei pastori di capre, quelle raccoglitrici di fichi e olive, quei braccianti stagionali, quelle mondine a Vercelli, quei duri pescatori, persi a volte sotto la neve a Chicago, in coma etilico in Svizzera, oppure oggi ottantenni, sappiate che hanno mantenuto uno famigli, hanno fatto sì che oggi voi siate avvocati, professionisti o eterni studenti a Roma. L’EVENTO Devo dire che tutto l’evento è stato funestato da bizzarri svolgimenti metereologici che passavano dalla tramontana alla grandine, alla pioggia; inoltre a volte la nostra organizzazione si è trovata in difficoltà, lo ammettiamo, per inesperienza , e di questo ci scusiamo con tutti i partecipanti. Tuttavia credo che il livello culturale e gastronomico sia stato apprezzato dagli oltre 30 ospiti provenienti dalla zona e da gran parte dell’ Italia isole comprese, ospiti che hanno potuto ascoltare, ballare, fotografare la tradizione musicale del Cilento. VENERDI’ SANTO Il venerdì, come da programma, ci siamo recati verso il Monte Stella, un area che viene chiamata Cilento Antico, per seguire le visite delle Congreghe (congree) alle chiese dei paesi intorno. A Stella Cilento la congrega di San Giovanni ha eseguito la passione (in parte tradizionale in parte colta) per poi salutarsi con la congrega di Stella. Motivo di interesse i canti a cappella intonati “alla cilentana” e certi accenni ai battenti. Verso sera era in programma la proiezione del documentario “la zampogna in campania” a cura di Beppe Mauro, il quale presente ha spiegato le varie fasi del suo lavoro, che personalmente reputo di grande valore, sia per la presenza di quasi tutti i grandi suonatori della zona (in massima parte cilentani), sia per la struttura a cerchio della sua indagine partita da Colliano, attraverso vallo di Diano e Cilento, fino a tornare a Caserta e Montemarano. A Beppe il mio ringraziamento per la sua presenza e per la sua sempre piacevole compagnia. La sera siamo tornati al VECCHIO MULINO di Pina Speranza(che si è occupata del vitto e dell’alloggio e che ringrazio per la sua resistenza e forza d’animo) a Novi Velia, STAGE Gli stage si sono svolti tra sabato e domenica, con IL TAMBURELLO di Gianni Berardi il quale come suonatore e costruttore ha avviato ai ritmi delle tarantelle del sud, seppure in Cilento non vi è tradizione di tamburello bensì di castagnola, la ZAMPOGNA di Tommaso Sollazzo che ha insegnato gli stili e le suonate tradizionali del Cilento imparate direttamente alcuni suonatori della zona, la CHITARRA BATTENTE di Gianluca Zammarelli che ha fatto presente la vera chitarra battente cilentana a 4 corde come accompagnamento al canto, la DANZA a cura di Roberta Parravano e danzatori locali. SORPRESA Tra gli stage abbiamo avuto l’onore di ospitare in forma amichevole, uno dei massimi esperti di cultura e tradizioni sarde, Gianni Mereu, che con grande conoscenza delle “verità” tradizionali sarde, ha esposto un saggio della sua preparazione coreutica e un campionario di strumenti musicali, dalle launeddas, alla tromba degli zingari ( che come in cilentano si dice Trunfa). Personalmente voglio ringraziarlo calorosamente per la presenza e mando lui un saluto di stima per il suo affettuoso carattere e per la sua professionalità. DANZA Sulla danza vorrei soffermarmi particolarmente, in quanto difficile è stato individuare i veri esecutori di tarantelle. Si può dire che in cilento esistono molte tarantelle: 1) la pastorale, che si balla su zampogna 2) la tarantella veloce, sull’organetto 3) alla crapara, che si balla da soli o in coppia di uomini con tratti di scherma/duello 4) alla rianese, con passi del Vallo di Diano 5) tarantella di sala, di origine più recente 6) quadriglia, che nel cilento è ballata a tarantella a coordinare la danza un ringraziamento a Roberta Parravano, esperta di danze tradizionali e non solo, che con pazienza e calma ha guidato gli allievi in passi nuovi, certo mai visti nel boom mediatico del new folk revival, cercando di partire dal passo base, che diciamolo ha molte parantele con la tarantella lucana. SUONATORI TRADIZIONALI Per gli incontri di danza abbiamo avuto l’onore di ospitare l’intera famiglia Cortazzo di Cannalonga, a partire da Zì Vincenza che con nostro stupore si è presentata in costume tradizionale originale e da lei siamo partiti per la tarantella pastorale, la presenza di Zì Nicola Cortazzo uno dei più conosciuti suonatori di zampogna di tutto il Cilento, il figlio Antonio Cortazzo abilissimo suonatore di ciaramella, il nipotino Nicola all’organetto. Per la danza abbiamo invitato un grande cantore e ballerino di Rofrano, Antonio Grosso che direi balla la tarantella in modo completo ed elegante, inoltre è uno degli ultimi cantori alla cilentana su chitarra battente, essendo stato un esecutore di serenate (d’amore, di lontananza, di sdegno, di spartenza, di lagnanza). Insieme a lui un altro cantore ballerino, Renato di Cannalonga che oltre a ballare benissimo la pastorale è un grande cantante nel tipico falsetto a “scandillo”. Nelle serate post-cena abbiamo avuto come ospiti il grande Zì Antonio “garibaldi” Lettieri di Castelnuovo cilento, suonatore di zampogna, ciaramella, organetto, oltre che cantante affascinante e teatrale, depositario delle canzoni del Cilento e della tradizione garibaldina. Sabato ci ha visitati Zì Carmelo detto ‘mbiastro, uno degli ultimi cantori su zampogna e grande conoscitore insieme a Zì Pasquale dei canti narrativi e rituali. PASQUETTA Tra pioggia torrenziale e vento, la pasquetta originariamente programmata sul monte Gelbison, si è svolta al chiuso, eppure si è potuto ascoltare le belle zampogne dei Maestri Citera e dei Cortazzo. Francesco Citera e Pietro Citera sono tra gli ultimi costruttori di zampogne e ciaramelle del Cilento, allievi della famiglia Trimarco di Polla dai quali tutti i costruttori del Vallo di Diano fino ai fratelli Forastiero ne hanno attinto la sapienza. Durante la giornata abbiamo avuto l’occasione di sentire la tipica formazione musicale del Cilento: zampogna 4 palmi e tre quarti (in SI), 3 ciaramelle, una ciaramella contravoce (in FA#) , organetto, castagnola. Inoltre Antonio di Rofrano e Renato di Cannalonga hanno fatto un canto alla cilentana su chitarra battente a due voci, per poi ballare tutti insieme agli ospiti dell’evento. CONCLUSIONI Seppure ci sono stati momenti un poco difficili, ho passato una bella esperienza, per la grande emozione avuta da questi “anziani” del Cilento a cui dedico il mio saluto. Vorrei ringraziare inoltre Tommaso Sollazzo di Salento, co-organizzatore dell’evento, per la sua grande calma e maturità, rispetto alla sua giovane età, e per la sua passione che lo rende attualmente l’unico giovane suonatore e cantore del Cilento (escluso me!), grazie a Tullia per il suo aiuto, un caro saluto a Gianna e Renato di Roma che mi hanno fornito le riprese dell’evento, un caro grazie a Enrico di Bellosguardo, Nicola di Pioppi, Nello di Cannalonga figlio di “pelea” che spesso ha risolto i problemi, Zì Pasquale di Novi, Mario per averci offerto la bella sala del convento dei Celestini, Gianni Mereu, Pietro Botte per la collaborazione, TUTTI I SUONATORI E DANZATORI e TUTTI GLI OSPITI veri protagonisti dell’evento. Dandovi appuntamento a quest’estate per un nuovo evento vi saluto tutti.
Gianluca Zammarelli |
Balvano, 3 marzo 1944.
Racconto di un contrabbandiere, Palomba Michele, classe 1930, nato a Torre del Greco Salvatore Argenziano (Palomba Michele è la somma di tanti personaggi e di tante storie torresi, confluite in un nome, senza alcun riferimento a persona esistente o esistita). Eva già sunata a campana ’i mieziuórno quanno me ne jétti a r’u puósto ’i pisciavino addó jévo a gguaglione, pe ghì â casa a mmangiá e pe ppigliá a mappata p’u viaggio. ’A tre misi, na vota â semmana, facevo sta viacrucisse ’a r’i pparte ’i Saliérno p’accattá nu poco ’i rrobba ’i mangiá. I pprimme vote, jévo cu zizì Vicienzo e nce fermàvamo priésto, pure nt’i ccampagne ’i Salierno. Ma mo, pe ttruvá coccosa senza essere scannato ’a r’i campagnuoli, èvamo ’a ì nfin’a ncoppa a Pputenza. Accattàvamo uóglio, fasuli, ciceri, pasta e ccarne ma chilli cafuni nun vulevano i sordi ncagno ma scitto a rrobba. Vestiti, cuperte, scarpe e tant’ata cummudità ca lloro nun tenevano. A Nnapule, chî mericani, se truvava tutto chello ca vulivi, accattanno o arrubbanno. Nu poco â vota io évo già assiccato u cascione r’u curredo ’i màmmame, che èva vérula ’i uerra; e pure u curredo r’i ssore meie s’èva squagliato. Aroppo passáieme all’argiento e pure i ppusate r’u servizzio buono me futtettono chilli pacchiáni. Me magnaie nu piatto ’i caverisciuri e póvere ’i pisiélli e na pagnuttella ’i granurino e patane. N’ata panella m’astipaie p’a sera. Â casa nuie nun ce mangiàvamo tutto chello ca io purtavo ’a campagna. Na parte a vennévamo p’accattá a merce r’u scagno e pe puté campá tutta a semmana. Appriparaie a mappata cu quatto cuperte americane, scarpuni ’i surdati, magliuni e cazettuni ’i lana, roi stecche ’i sigarette e pure l’urdima pareglia ’i pusate argiento e scenniétti a chiammá fráteme cuggino Giruzzo ca viaggiava cu mmico. ’A r’u ponte ’i Gavino jéttemo â stazzione, camminanno ncoppa i cchiastre r’u treno, pe spiá si nce steva nu treno p’a sera. Rucchetiello u guardastrate nce ricette ca nu treno merce steva mpartenza ’a Napule e nuie nce appustaiemo roppo i puonti scarrubbati ’i sottufronte, abbasciupuorto, chelli seie arcate ca i teteschi avevano fatto zumpá all’aria. I mericani facetteno tanta pilastruni ’i lignamme, cunfromme a chella catasta ca l’indiani facetteno ncoppa î scuóglieri ’i Gavino, quanno abbrusciaieno nu muorto lloro. Quanno passava llà ncopa, u treno se ntaliava e nuie zumpàvamo ncopp’i vaguni, già chini a strafottere ’i ggente, sagliuta a Nnapule, a Ppuortici e a Rresina. Ron Bernardino r’a Cappella ’i Puortusalvo steva sunanno vintunora quanno u treno arrivaie, già carrico ’i centinara ’i cristiani ncatastati rint’a cchilli pochi vaguni ca nunn’erano stati nzerrati r’a pulisse. Ogni vota ca u treno passava ncoppa î puonti ’i lignamme, rallentava e ata ggente zumpava ncoppa. Accussì â Torrannunziata, a Ccastiellammare ma roppo m’addurmiétti, pecché era u turno mio, frammente ca Giruzzo faceva a posta î mmappate. Nuie stévamo sempe cu l’uocchie apierti pe bbia r’i mariuoli ca sagliévano senza a rrobba e se futtevano i mmappate ’i chilli ca s’erano addurmuti. Nce stevano pure i putecari ca stu strascino u ffacevano pe mestiere già ’a primma ca trasètteno i mericani, tanno, quanno i fascisti sequestravano u carreco e i ppurtavano pure ngalera. Io e Giruzzo, ca tenévamo sulo quattordici anni, u ffacévamo p’a famma e sulo ’a qatto misi ma però nce l’évamo mparato bbuono u mestiére. Nun ce facévamo cchiù fottere ’a nisciuno nt’u treno e pure ’a r’i cafuni p’i ccampagne. Me scetaie a Battipaglia quanno eva già calato u scurore r’a notte. Chiuveva e nt’i vaguni stévamo azzicco azzicco l’uno cu ll’ato pe puté pigliá nu poco ’i calimma e pure pecché nun ce steva posto pe tuttu quanti ’i nuie. Frammente ca rurmevo, coccheruno era sciso e tant’ata ggente era sagliuta. Paisani ca se spustavano ncopp’i merci, nt’i vaguni, a nu paese a n’ato pe ghì a faticá, oppure uagliuni ca jevano e turnavano r’a scola e pure prufessiunisti ca viaggiavano ncopp’î vaguni pecché u treno chî ccarrozze nce ne steva uno sulamente â semmana. Nt’a stazzione attaccaieno nata lucumutiva e po u treno partette pe Putenza. Giruzzo s’addurmette e io me mettietti
a gguardia r’i mmappate. Arrivaiemo â stazzione ’i Balvano e llà u treno
se fermaie pe na coincidenza. Era mezanotte e io già penzavo ’i
m’appapagná nu poco. Sentevo ogni tanto i vvoci r’i machinisti ca se
chiammavano nt’a nuttata. Nt’u vagone i rrunciate ’i chilli ca rurmevano.
Era quasi l’una ’i notte quanno u treno s’avviaie p’a sagliuta. Giruzzo
rurmeva e io penzavo r’u scetá a Pputenza. Me scetaie nterra â stazzione 'i Balvano. Nu mireco m’aveva fatto na
serrenga e io m’ero scetato. Asciétti fora e truvaie na muntagna i
muorti. A neve i ccummigliava già. |
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LE CONFRATERNITE DEL CILENTO TRA TRADIZIONE E INNOVAZIONE Negli ultimi anni si sta diffondendo, tra le Confraternite del Cilento Storico, la tendenza ad ampliare l' organico, inserendo giovani cantori e donne, a dispetto di una tradizione secolare che le ha sempre ritenute appannaggio esclusivo di uomini anziani. Cosa potrebbe comportare una scelta del genere? Qualipotrebbero essere le devianze rispetto ai tradizionali rituali, immutati per generazioni? Come e in che misura la presenza delle donne potrebbe sconvolgere le cerimonie delle Confraternite, e soprattutto la loro espressione più autentica e rappresentativa, cioè il canto? Partiamo da una considerazione di fondo: una tradizione, per continuare a vivere nel tempo, deve necessariamente rinnovarsi e fare i conti con le mutate condizioni storico-culturali che si vengono a creare nel tempo. E più che mai nell' epoca contemporanea, caratterizzata da rapide, vorticose trasformazioni culturali e tecnologiche, la tradizione, per continuare ad esistere, presuppone un tradimento. Attenzione! Con ciò non voglio assolutamente intendere destrutturare completamente, sconvolgere o perdere il significato originario, trovare un accostamento con le mode e le tendenze contemporanee, alla ricerca di maggiore risonanza ed eco, in modo da uscire da un ristretto circolo locale. In questo caso, probabilmente, è meglio che la tradizione rimanga relitto, residuo.. Ma comunque.. andiamo avanti. I rituali della Settimana Santa sono una rappresentazione teatralizzata e musicata della Passione e morte di Cristo. Per secoli si sono tramandati uguali nel tempo, o con poche varianti, e altrettanto il canto, fulcro dei rituali. Questo è eseguito esclusivamente dagli uomini, e non potrebbe essere altrimenti, data l' emissione vocale, il registro e particolari tecniche di enfatizzazione di alcuni armonici nella voce. Certamente, questo repertorio è conosciuto dal resto della comunità e quindi dalle donne, e in parte anche da esso opportunamente eseguito, seppur con varianti melodiche e di stile maggiormente derivate dal canto profano locale e in momenti esterni alla cerimonia rituale. Il canto delle Confraternite si può considerare la “rifunzionalizzazione” della tradizionale lamentazione funebre “privata”, profana, in ambito liturgico. Si discosta, però, in modo evidente, da quest' ultima -rappresentazione per certi versi anch' essa teatrale- per maggiore solennità e decoro. Inoltre, in ambito contadino, il lamento funebre profano, laddove persiste, viene pubblicamente eseguito solo dalle donne, siano esse lamentatrici specializzate, o parenti del defunto. Si tratta, quindi, di un' espressione canora esclusivamente femminile. L' allargamento dei canti confraternali alle donne potrebbe, a mio avviso, ben collocarsi in questa operazione di avvicinamento tra la sfera del sacro e del profano, al mondo profano popolare e al linguaggio musicale di questo. E forse era proprio questo il senso delle Confraternite, fare da tramite tra la liturgia, la Chiesa quindi, e il popolo. Certamente, è forte il rischio di sminuire e sconvolgere un canto autentico e comunque sia affascinante e di forte impatto emotivo. Mi piacerebbe comunque provare a immaginarne il risultato. Sarebbe sicuramente diverso, forse meno robusto e corale, più straziato e urlato; difficile immaginare un' esecuzione in cui uomini e donne cantano simultaneamente; probabilmente si perderebbero molte affascinanti coloriture del canto attuale maschile. Curiosa sarebbe l' esecuzione di strofe in alternanza tra il semicoro degli uomini e quello delle donne, ma forse danneggerebbe lo spessore e l' impasto armonico che l' esecuzione maschile crea. Molto più interessante, a mio avviso, affidare un momento della rappresentazione alle donne, il pianto sul sepolcro di Cristo ad esempio, in cui intonerebbero, in un' atmosfera meno solenne, più straziante, il Pianto di Maria, più appropriatamente femminile. Non una traslazione integrale della lamentazione profana nell' ambito della cerimonia (non si utilizzerebbero i moduli melodici propri di questa) ; ma la presenza delle donne ad eseguire il pianto, darebbe forse più colore e realismo alla rappresentazione. Agli uomini il resto dei canti processionali. Si potrebbe fare un esperimento... 21 febbraio 2007 Giuseppe Apolito (articolo in esclusiva per www.alfonsotoscano.it, il Dott. Giuseppe Apolito si è laureato con una tesi in Etnomusicologia dal titolo "Lo stile di canto lirico di tradizione orale dell'Alto Cilento/Valle del Calore") presso l'Università degli Studi di Bologna - Facoltà di Lettere e Filosofia - Corso di laurea in D.A.M.S. indirizzo Musica |
Tra sassi nuvole lire e cieli di Calabria di Maura Gigliotti |
Che oggi il cielo è grigio su queste montagne ed è tempo di partire per andare verso il mare che a me il mare d’inverno mi chiama che è triste il mare di inverno è un mare per cuori tormentati che tu sei lì e passeggi sulla spiaggia avanti e indietro e i tuoi piedi sofficemente scavano labili solchi di assenza sulla sabbia dietro di te e le onde ti accompagnano un passo dopo l’altro che ti sembra di poter camminare sempre senza mai finire come il mare che non finisce mai e allora mi sveglio e parto. Dietro di me le mie montagne il mio paese che mi somiglia con i suoi vicoli a tratti aperti pieni di balconcini colorati dai fiori a tratti decadente e malinconico ed io impavidamente scendo curvo risalgo per montagne spoglie che sono ancora promesse di primavera. Nebbia e pioggia e vinicio a farmi compagnia che un pò comincia a non sopportarmi più e mi guarda con astio al rum che magari lui dice ma perchè non metti de andrè o la banda bardò che io sono stanco di cantare ma io lo guardo questo vinicio qui e gli dico che non posso che la sua voce è la mia voce in questi giorni che sanno di autunno e di coperte che abbracciano le gambe e i cuori. E io scendo con la mia macchinina tutta bella che adesso c’è anche il gas ed io posso arrivare fino all’equatore e tornare con la mia macchinina in mezzo alle giraffe e agli ippopotami che io così me l’ immagino l’ equatore pieno di zebre e di giraffe. Tiriolo marcellinara sfilano dietro di me quasi scappano ed io li saluto che vado a tuffarmi nel mare di catanzaro lido che il mare lì è uguale al cielo e se ce la fai a superare il guardarail magari in quel cielo lì ci puoi volare e fermarti a riposare per un pò magari bevendo una gassosa al caffè. Ma la strada mi chiama che non è la metà ma il viaggio ed io ci sto dentro questo viaggio che ogni curva è un ricordo che a squillace c’è il supermercato dove quando ero triste triste disegnata dentro una vita non mia confinata tra pappe e pannolini e tunonseibuonaanientetunonsaifarenientetunonproduciredditoeguardacomeseigrassaesfattaebrutta passavo i pomeriggi riempiendo le buste visto che il cuore non lo potevo riempire. Che il viaggio è sempre un viaggio di vita sotto un cielo grigio come questi giorni ed il mare che rimanda colori che sanno di blu e di turchese mentre vinicio mi chiede che cosa è l’amore ma io non lo so vinicio che cosa è l’amore che io non ci capisco niente dell’amore io amo e basta senza controindicazioni e invece le controindicazioni ci sono solo che io non le conoscevo e allora riprendo il mio viaggio fatto di visi e occhi e sorrisi tutti dentro di me che mi hanno portato ora su questa strada fatta di sassi e di ulivi ebbri di vita e di sole che oggi non c’è fuori ma c’è dentro che quando io sono in macchina io sto bene che il vento si intreccia nei miei ricci e mi accarezza dolce il viso che quasi quasi vorrei chiudere gli occhi e lì un frontale non me lo leva nessuno. Evito quindi di schiantarmi sulla jonica che a memoria di me resterebbe solo un mazzo di fiori avvizziti in un angolo e riprendo il mio viaggio più giù fino a che sembra che il mare finisce ma non finisce mai come la vita e allora la macchina accelera verso soverato tutta na cazzaecasarande che non mi piace soverato non mi è mai piaciuta con le sue pretese da rimini terrona e poi poi mi si apre il cuore su sant’andrea che io me lo guardo e mi fermo anche alla posta di sant’andrea che è arrampicato sulla montagna tutto panciuto e la vista si apre ad abbracciare tutto quel cielo e tutto quell’azzurro che io da qui li posso sentire pietro e peppino che lo so che mi stanno salutando che a me mi conoscono e suonano anche un pochino per me che io me li guardo con i loro occhi lunghi nei visi segnati e me la ballo pure da sola sulla strada verso il mio mare che sant’andrea è già dietro di me e dietro il vento che lì mi ha portata la prima volta. Poi giù sempre più giù che anche le case cambiano e le montagne e gli alberi in lontananza che c’è gioiosa che mi aspetta la principessa sorridente e ballerina che con il sorriso si è lasciata abbracciare e portare via dal mare per un amore non ricambiato ed io che oggi mi chiamo mauragioiosagigliotti supero gioiosa e santuroccu che tanto poi ci devo tornare che micocicciovittore mi aspettano che a mauragioiosagigliotti anche se non sembra c’è un sacco di gente che l’aspetta. E poi siderno e lele bello come il sole che mi chiama e mi dice aspettami davanti al centro commerciale che io mi ci metto davanti al centro commerciale che ha davanti il mare ed io non riesco a stare davanti ad uncentro commerciale che ha il mare davanti che io ci devo andare dentro al mare e allora scendo dalla macchina che c’è la ferrovia in mezzo e magari passa un treno e magari il treno mi porta via lontano da me senza parole senza desideri senza pensieri la tua vita sarà acunamatata che ci sono sempre i bimbi belli nella mia testa. E ci arrivo sulla spiaggia dove il cielo finisce in mare e respiro ma respiro forte che quando respiro forte i pensieri se ne vanno via con i ricordi e mi sento la testa bella vuota vuota come un’anguria che dentro c’è solo dolcezza e cammino sulla spiaggia un pò avanti un pò indietro che è quasi pasqua che è quasi tramonto che è quasi notte che mi viene il sonno e mi porta via che su questa spiaggia ci sono i sassi che sono tutti belli e tutti diversi che io ascolto le storie che hanno dentro alcuni lisci e dolci che te li strofini sul viso e sanno di carezze altri invece ruvidi gonfi pesanti che portano dietro ricordi e ricordi e ricordi che ce ne sono di bellissimi che io li voglio prendere tutti quei sassi e portarmeli a casa con il mare e le nuvole sopra il mare ma dentro la mia macchina non c'è abbastanza spazio e allora mi porto sette sassi che poi lele arriva con la sua fidanzata ed io risalgo tutta bella abbracciata ai sassi e ci sorridiamo che io non resisto ai sassi che se a me un uomo viene ed invece di un mazzo di fiori mi porta un cesto di sassi lo amerò fino alla morte e lele mi fa segno di seguirlo che andiamo da mico. Io nchiano con la macchina e seguo lele che poi a uomini e donne non ci è andatao a fare il tronista ma che si è fidanzato e sorride nel sorriso di lei e sembrano felici che la vorrei anche io un po’ di quella felicità che ti fa sorridere anche solo per un raggio di sole. E arriviamo a casa di mico che c’è la moglie che ci accoglie e chiama mico mico che fa le lire e che non sa bene perchè suonano ma loro suonano perchè hanno dentro la magia del suo sapere antico come tonino che ricama sogni sulle zampogne e mico arriva che io rido perchè ha i baffi ed e’ scalzo e ha una camicia a quadri e si presenta e mi dice piacere ed io gli dico che sono onorata e lui sorride che magari gli sembra strana questa femmina qua che raccoglie sassi e parole e che è scesa dalla montagna per conoscerlo che lele mi ha parlato di mico che mico non sta lì a studiare non sta ì ad imbrogliare il cuore ed il cervello con calcoli che mico la lira ce l’ha nelle dita della mano e nella pancia e nei baffi e negli occhi e mico ci fa strada ed andiamo nel suo laboratorio magico che c’è un armadio ed è pieno di lire che io un armadio pieno di lire non l’avevo visto mai e ci sediamo e lele comincia a suonare che poggia la lira sulla gamba che sembra un dio greco che non ha freccia ma un arco che non trafigge con i dardi ma con le note e suona lele che io posso anche rimanere qui tutta la vita ad ascoltare questo suono antico che mi porta indietro ma non abbastanza da non avere memoria. E lele suona ed il laboratorio si riempie di note che tu ti chiedi come possa uno strumento così piccolo fare tutta quella musica che mico mi fa vedere la collina accanto e mi dice che a volte il vento se la porta la musica della lira fino a lì e mico mi racconta di suo zio peppe che le lire le faceva e le suonava che sembrava una magia che la lira era lo strumento dei poveri un pezzo di legno che suonava e suonava e suonava e mi racconta di suo zio e di un suonatore di battente che si mettevano fuori e lui ascoltava quella musica e ci perdeva dentro ma che lui la lira non la suona la sa solo fare solo non sa mico che lui suona molto di più di altri che suona con quegli occhi belli che c’ ha puliti e sinceri che ci vedi il cielo dietro di lui se ti affacci su quegli occhi e poi mico porta dentro una foglia di agave e la apre e mi fa vedere i fili che si tirano fuori dalla foglia e mi dice sai prima i soldi non c’erano e le corde te le potevi fare con le foglie di agave che io mi immagino questa lira che suona con una foglia e penso alla dolcezza delle note di questa lira fatta di foglie che magari le note un pò sono marroni come il legno e un pò sono verdi come l’agave. E la mia lira suona ed è bella panciuta e corposa e rotonda come me piena di succo e poi suona lele con il figlio di mico che a sedici anni e le lire si intrecciano si cambiano si scambiano sorridono si rincorrono e fanno anche le capriole che io sono qui tutta scialata con il signor mico che mi racconta dello zio peppe che dopo l’alluvione si è trasferito e lui non ci poteva andare più a vedere come faceva le magie ma ha imparato mico che la magia ce l’aveva già dentro e io ringrazio e chino la testa che per me è un onore essere qui che questa è saggezza che solo qui si può imparare qualcosa e non dai libri che mentono e confondono i cervelli ed intorpidiscono le parole e anestetizzano i sentimenti. Poi la moglie di mico mi mostra i ricami che fa e io penso che questa casa è piena di arte e di amore che ogni angolo ti parla di un amore che non c’è più che sta da un’altra parte e lei ricama per le sue figlie che quando ricama va via con la testa e riposa per un pò che essere donna non è facile non è mai facile e mi parla di mico che passa il suo tempo a fare le lire che il lavoro non c’è ed io non capisco quale mondo renda possibile un simile spreco che mico dovrebbe avere una reggia e dovrebbe sorridere sempre e le persone dovrebbero pagare solo per ascoltare le sue storie e ringrazio che io ringrazio sempre ostinata e contraria sempre. Abbraccio tutti bacio tutti ringrazio tutti e riparto con la mia lira verso gioiosa che ho amici da salutare e mi tuffo tra i ricci di ciccio e negli occhi tristi e pieni di poesia di mico e nell’assenza di vittore che c’è perchè io lo sento addosso vittore e un pò parliamo un pò stiamo in silenzio che io mico ciccio e vittore non abbiamo bisogno di troppe parole per essere amici. Poi riparto in direzione ostinata e contraria reguaind badolato santa caterina sant’andrea soverato copanello catanzaro lido cielo che finisce in mare mare che finisce e basta montagne montagne montagne e nebbia e freddo e pioggia che io nella pioggia ci sto proprio bene che se mi scappa una lacrima ogni tanto non si vede e poi cicala e i miei bimbi che io torno sempre a casa e me li abbraccio e mi perdo nell’odore di pane che hanno. Poi ci vestiamo che la notte di cicala ci reclama mano nella mano con i miei bambini che è tempo di dolore e di mancanza e di processioni latenti che con questa luna qui tutto ti sembra improbabile che traveste di luce le case e le ombre dentro le case che poi esce la madonna che è tutta vestita di nero ed il mantello nel vento si fa leggero che sembra che vola la madonna e un pugnale le trafigge il cuore che anche io sono un pò trafitta da questa luna e da tutto questo cielo e le donne cantano ed io seguo quel mantello e quel leggero dolore e poi mi guardo questa luna che vorrei camminarci io sulla luna e magari rotolarci e mi perdo dentro questi canti antichi e c'è il cristo straziato nella naca che c'ha una faccia bella però che sembra che dorme e non che ha addosso tutto questo sangue e questo dolore e poi c'è il cristo sulla croce che sta lì senza chiedere e magari la luna la guarda pure lui e pure lui ci vuole salire sopra e allora io magari glieli levo i chiodi a cristo e lo prendo per mano e me lo porto anche sulla luna che magari facciamo le capriole insieme e ridiamo e magari ci mangiamo pure la luna che quando finisce cadiamo giù in mezzo alle nuvole e guardiamo dall'alto le donne e i vecchi e le loro canzoni che sono lì persi che cristo non c'è più se ne è andato è scappato con maura sulla luna. Che le nuvole corrono questa sera nel cielo di cicala che la luna è grande come un torta morbida di panna e le nuvole corrono si rincorrono si fermano ricominciano e passano sotto la luna e sopra la luna che anche la capra campa sotto la luna sono io che non campo più che fa un cazzo di freddo ma la chiesa è tutta piena di lucine che sembrano fate o anche fatte che dir si voglia e mia figlia mi guarda con aria minacciosa e mi intima di non muovermi da lì ma non ce la faccio che io voglio vedere le stelle e le nuvole e allora prendo per mano il mio bimbo bello e corriamo corriamo fuori dietro alle nuvole che magari per una volta vinciamo noi. |
di Carlo Muccio
Ero alto poco più di un soldo di cacio, avevo pressappoco 6 o 7 anni era, dunque, il favoloso periodo degli anni ’60. Amavo la natura e prediligevo vivere all’aria aperta per cui frequentemente mi inventavo pretesti e creavo circostanze per potermi recare in campagna da mio zio Girolamo. Io tuttora abito ad Aversa, media cittadina in provincia di Caserta, e proprio nell’estrema periferia sud, contrada Cappuccini, chiamata così per la presenza di un diroccato e fatiscente monastero appartenuto ai monaci Cappuccini, mio zio possedeva degli appezzamenti di terreno, era quindi un agricoltore dedito alla terra e a tutto ciò che se ne poteva ricavare. Proprio in queste zone dell’aversano vi erano grossi vigneti di una speciale qualità di uva detta “asprina o asprinia”, famosa un po’ in tutta l’Italia e credo anche oltre i confini. Detta uva si presenta in piccolissimi chicchi appiccicati l’uno all’altro, tanto che è impossibile mangiarla ad acini ma va fatto dando dei morsi sul raspo, un po’ come si mangiano le pannocchie di grano. Altra peculiarità di questo tipo d’uva è che si presenta in filari che crescono all’altezza di circa 8 – 12 metri dal suolo. Come fare, quindi, per sorreggere detti alti filari? E qui che entra in ballo l’arte e si manifesta l’astuzia e la scienza del contadino! In occasione della nascita di un figlio i contadini della mia zona, almeno un tempo, erano soliti piantare alberi di pioppo alla distanza di 10 – 15 metri l’uno dall’altro, questi ultimi hanno la caratteristica di assorbire scarsa manutenzione e, nel contempo, una volta divenuti alti si poteva stendere tra loro vari fili di acciaio orizzontali sui quali, appunto, far avvinghiare i filari di uva asprina. Che arte però! Tutto questo giro di parole raccontato minuziosamente per arrivare a questi benedetti alberi di pioppo che rappresentano il punto cardine del racconto. In determinati periodi dell’anno, non so dirvi quali, ma ricordo che i pioppi incominciavano a perdere quel tipico fiore che svolazza nell’aria sotto forma di peluria volante, forse aprile-maggio, mio zio Girolamo all’imbrunire era solito sedere sull’uscio della sua casa colonica a manipolare dei rametti di pioppo. Io lo sapevo bene cosa stesse facendo, perché quel lavoro era destinato a me, bambino degli anni ’60 con pochi giocattoli a disposizione e, quell’arnese che stava costruendo mi avrebbe arrecato una immensa felicità. Ebbene stava creando uno strumento musicale sui generis: uno zufolo di corteccia. Io lo osservavo con attenzione cercando di apprendere la sua magica arte e ho tuttora, davanti ai miei occhi, quelle scene singolari ed uniche. Tagliava un bastoncino, che doveva essere perfettamente dritto e senza nodi, dell’altezza di circa 25 centimetri e del diametro di 2 o 3; poi lo manipolava con le sue mani scure, ruvide e rugose facendone fuoriuscire il bastoncino di legno dalla corteccia, lasciando la stessa intatta senza tagli o ammaccature: era un’arte davvero unica che in pochi conoscevano e che veniva tramandata da padre in figlio. Il bastoncino che aveva estratto dalla corteccia lo assottigliava un po’ con il suo coltello a serramanico, che portava sempre con se, lasciandone cadere per terra lunghi ricci di legno sottilissimi, con i quali io ci giocavo. Perché tale operazione? Ma perché lo stesso bastoncino, successivamente, doveva essere rinfilato nella corteccia ove doveva scorrere senza alcun attrito. Dunque … ad un’estremità della corteccia, e ad una distanza di 3 centimetri circa, praticava un foro, a volte tondo a volte quadrato, e proprio questo foro rappresentava lo sfiato dell’aria dello zufolo; a questo punto introduceva il bastoncino assottigliato dalla estremità opposta in cui aveva praticato il foro e iniziava a farlo scorrere muovendo l’indice e il pollice della mano destra, mentre sorreggeva la corteccia con le dita dell’altra mano. Portava così alla bocca lo zufolo dalla parte in cui aveva praticato il foro e vi soffiava dentro dando un’intonazione al motivo che riproduceva. Il suono che diffondeva lo zufolo era unico e credo che nessuno strumento musicale possa tutt’oggi eguagliare. Non vi erano note da suonare ma le stesse venivano prodotte dallo scorrimento del bastoncino lungo la corteccia e per giunta non c’era bisogno di accordare lo strumento! Ricordo, ancora, che spesso lo zufolo si riempiva di saliva la quale penetrava nello strumento lubrificandolo automaticamente, permettendone il perfetto scorrimento del bastoncino lungo la corteccia. Ho tentato varie volte di conservare lo zufolo ma, come per incanto, dopo pochi giorni si autodistruggeva, insomma non era più possibile utilizzarlo poiché la corteccia diveniva scura e seccandosi si spaccava in più punti, mentre il bastoncino diventava secco e si curvava. Sono trascorsi oltre 40 anni da quei giorni: mio zio Girolamo non è più tra noi ed io serbo ancora intatto il suo ricordo e dei suoi meravigliosi zufoli. A volte mi reco presso quei luoghi di campagna ove risiedono tuttora i miei cugini, i quali hanno abbattuta la casa colonica costruendone una grande villa, progettata da me, con tanti comforts; tra di noi si discute di tante cose, mai però abbiamo accennato a quello zufolo magico dal suono fatato, che credo mai più avrò modo di riascoltare nel corso della mia vita, comunque il suo eco è scolpito indelebile nella mia mente. Addì 14-06-05 Carlo Muccio in esclusiva per Alfonso Toscano www.alfonsotoscano.it
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Olds - Osservatorio-laboratorio demoantropologico e del sociale La decima edizione di “Comunicare con l’arte” organizzata dalla Pro-loco di Colliano (Salerno) ha registrato risultati piuttosto originali. Inaugurata nel lontano 1995 come rassegna estemporanea di pittura, nella edizione di quest’anno affidata ad Antonio Tateo che è il direttore dell’OLDS, ha inaugurato una nuova formula: non più una estemporanea libera ma ad invito. Questo ha consentito di scegliere pittori giovani e meno giovani e metterli a confronto in una sorta di gara creativa ma anche in una occasione di confronto generazionale e di interpretazione creativa legata alla propria esperienza umana. Il risultato è stato che alla fine dei tre giorni tutti hanno prodotto lavori di comunicazione artistica piuttosto significativa, determinando anche una situazione di novità culturale e di comunicazione.. Su suggerimento del Direttore Artistico Antonio Tateo, infatti, Ornella Ceci, giovane allieva del prof. Velati, Presidente dell’Accademia delle Belle Arti di Bari, e Nuvola Calenda di Tavani, sperimentata pittrici di “trompe d’oeil”, hanno realizzato uno sperimentale approccio con i collianesi che ha prodotto un’interessante esperimento che il direttore artistico ha definito “espressione di arte nel sociale”. Come si ricorderà, negli anni ’70 fu teorizzato il filone artistico dell’Arte del sociale, di quella espressione artistica, cioè, che aveva assunto come tema espressivo il dibattito intorno alle grandi problematiche sociali di quegli anni. La libertà, la tutela delle classi subalterne la valorizzazione delle loro culture, il diritto allo studio, la libera formazione delle idee e la loro circolazione, l’affrancamento dai limiti imposti dai “nuovi fascismi”, l’opera d’arte resa fruibile da tutti, l’abbandono della musealizzazione delle opere d’arte contemporanee con l’uso della “performance” cui tutti assistevano o partecipavano, l’uso dei nuovi linguaggi visivi, furono gli argomenti del dibattito artistico di quegli anni, con l’analisi sociale dell’arte introdotto nelle università italiane con Carlo Giulio Argan e con la creazione di Enrico Crispolti, allora titolare della Cattedra di Arte Contemporanea all’Università di Salerno, della teorizzazione della “Arte del Sociale”. Con Crispolti, Tateo riusci ad organizzare con Lucilla Clerici e Lanfranco Colombo, rispettivamente direttrice e proprietario della Galleria “Il Diaframma” di Milano, la prima Rassegna universitaria di fotografia, con la partecipazione degli autori ad un seminario con gli studenti dell’università salernitana. La decima rassegna di Colliano ha, invece, inaugurato la nuova stagione dell’arte del sociale scoprendo il filone dell’arte nel sociale, un arte, cioè, dove la componente sociale partecipa attivamente alla realizzazione dell’opera dell’artista, interagendo con quest’ultimo. La giovane Ceci di Bari ha realizzato un ritratto di una donna di Colliano con cui ha interagito per tutto il tempo della preparazione del suo lavoro estemporaneo, sul piano umano facendosi “adottare” letteralmente. Il risultato è stato un ritratto finale di una donna che ha vissuto dure esperienze umane e che ha lasciato anche il suo segno pittorico in questo scambio umano occasionale ma , allo stesso tempo, profondamente umano. Nuvola Calenda di Tavani, pittrice romana, è quella che ha raffigurato se stessa nella realtà quotidiana collianese, coinvolgendo in questa operazione gli abitanti di ogni età e di sesso diverso, invitandoli a lasciare un loro segno sulla tela firmando l’atto pittorico. Ben 32 abitanti, ragazzi e adulti, donne e uomini, hanno realizzato con lei il lavoro estemporaneo, diventando, così, artisti assieme all’artista. E’ stato così abolito il diaframma che ha sempre separato l’Arte con la A maiuscola e il mondo dell’uomo comune che non gioverà al mondo dei commercianti dell’arte ma può rinnovare il mondo dell’arte che, non intimorendo più l’uomo della strada, potrà godere di una nuova stagione di diffusione su un substrato più ampio di potenziali fruitori e, quindi, potenziali collezionisti. Nasce da questa esperienza il nuovo manifesto che ha si chiamerà “Utopia” ideata dal direttore artistico Antonio Tateo è sottoscritto immediatamente dalla titolare della Cattedra di Fotografia, Gabriella Guglielmi, della Facoltà di Lettere dell’Università di Salerno. Il testo definitivo del “manifesto” artistico sarà inviato a tutti quelli che credono in un rinnovamento delle arti visive, in un momento di crisi epocale non solo sul piano artistico ma anche dell’umanità intera, per raggiungere un obbiettivo ambizioso che è quello di interrompere tutte le barriere ghettizzanti. La sacralità per iniziati sta alla base di tutti i ”fascismi” e gli “integralismi” che si preparano a creare un mondo di “nuovi schiavi”. Altro momento innovativo della manifestazione di Colliano, Alta Valle del Sele, in provincia di Salerno, è stato un insolito raduno di musica etnica nel corso del quale si è suonato con gli strumenti popolari, ma si è anche affrontato il problema spinoso di un ricambio generazionale non tanto dei suonatori ma dei costruttori di questi strumenti popolari. Già per la chitarra battente chi vuole avvicinarsi a questo strumento popolare cilentano deve rivolgersi ai liutai pagandolo una discreta cifra. E’ evidente che questa logica ne determina a lungo andare la sua scomparsa. Di questi argomenti Tateo ne ha discusso con il cilentano Alfonso Toscano che vive a Roma e che costruisce la chitarra battente per "aspiranti suonatori" e per i soci del Circolo Bosio di Roma, un circolo culturale molto attivo nella musica etnica, da Antonio Forestiero e Vincenzo Forestiero, costruttori e suonatori di zampogne e ciaramelle di Lauria (Potenza), con Antonio Radesca di Tardiano frazione di Montesano sulla Marcellana, con Felice Curcio di Casalbuono, con Giovanni Mignoli e Rosario Mignoli, con Pietro Rosario Crucci, suonatori e costruttori di Caggiano, con Attilio Cirillo, organetto diatonico, con Luciano Serpa, voce e Maurizio Cuzzocrea, del Consorzio dei Musicisti Calabresi, di Paola (Cosenza) e, infine, con la presenza di Vincenzo Cesario e Pasquale Ruffolo, suonatori e costruttori di zampogna surdulina calabra detta “para”, di origini del mediterraneo orientale. Anche per questo argomento sarà stilato un documento “sindacale” che avrà larga diffusione tra gli “addetti ai lavoro” ma anche tra i numerosissimi appassionati. Antonio Tateo OLDS – Osservatorio-Laboratorio demoantropologico e del sociale. Via Rufoli, n° 23 – 84135 Salerno – e-mail: oldstateo@jumpy.it |
‘O P U L L E C E N E L L A
D I N T’ ‘O C U P P
E T I E L L O di Carlo Muccio
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