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      Carpino. Si chiama Rocco Cozzola, 73 anni, il costruttore di chitarre battenti con fondo bombato più anziano di Capitanata, ancora in attività. Il nostro abita e vive a Carpino. Figlio di Francesco Paolo, detto "Fascianédde", catarraro storico carpinese, che ha imparato il mestiere di fabbricare chitarre ed altri strumenti musicali da Domenico D'Addetta, meglio conosciuto come "Spulepettone", erede di una lunga tradizione liutaria garganica. Fu Francesco Paolo a costruire nel lontano 1924 la chitarra battente che utilizza tuttora Andrea Sacco, uno dei più rinomati cantori di Carpino, esecutore per anni di tante serenate e tarantelle. Allora lo strumento costò ad Andrea ben 25 lire. Francesco Paolo era il punto di riferimento di tanti suonatori di Carpino e di Cagnano Varano.

      Costruì per loro, si dice, centinaia di strumenti, anche perché è noto che durante le esibizioni canore e danzerecce spesso e volentieri si veniva alle mani e gli strumenti divenivano momenti di discordia e finivano per essere distrutti. Questa per Cozzola, tuttavia, non era l'attività principale, anche perché, per tutta l'estate e comunque nei periodi caldi di primavera, si dedicava alla cura dei campi e al piccolo allevamento, soprattutto capre e pecore, dalle quali poi ricavava anche le pelli per costruire tammorre e "zighedébù" (tamburi a frizione). Rocco è l'unico della famiglia, in tutto tre maschi e una femmina, ad aver ereditato la passione per tali strumenti. Dal papà ha appreso anche la tecnica esecutiva e l'accompagnamento dei canti, che ricorda ancora a mena dito. Già da piccolo, con i fratelli Matteo e Orazio, aiutava il papà nel suo laboratorio nel centro storico di Carpino.

 

       A nove anni, ricorda Rocco, si recava dalla vedova di "Spulepettone" per acquistare le corde. Costavano due lire. Il legname, quasi sempre ciliegio, abete, noce e acero, lo si ricavava dalla natura, raccogliendolo nei boschi di Monte Vernone. Tutto era realizzato a mano. Per costruire una chitarra, Francesco Paolo impiegava circa quindici giorni. I tasti, in tutto dieci, erano di corna di bue o di capra, debitamente lavorati, tagliati e drizzati a caldo. Il manico, solitamente di legno duro (ciliegio, noce o acero), veniva levigato con il vetro e rifinito con carta abrasiva. I piroli, sei nel caso di chitarre a cinque corde semplici (il modello più comune), o quattordici in quelle a tredici corde (più rare), erano inseriti nella paletta. Spesso, in base alla richiesta dei committenti, costruiva anche strumenti con cinque cori, a corde raddoppiate.

        La cassa dello strumento, dello spessore di circa tre millimetri e rigorosamente levigata con pialla e a forza di braccia, era formato da un fondo con doghe di legni nostrani duri, mentre il piano armonico era, per un fatto acustico, esclusivamente di abete. I disegni applicati sulla cassa, erano di cartoncino colorato con motivi di fantasia. Invece la rosa centrale era a forma di cono, chiusa in fondo da un cartoncino circolare. Questa dava allo strumento il suo tipico suono ovattato. I vari pezzi erano tenuti insieme da "colla di pesce", assai puzzolente, ma di ottima tenuta. Il manico veniva incastrato alla cassa e tenuto da una vite o "centrella". La paletta era inserita nel manico con un incastro a "V". Le corde venivano ancorate al fondo della stessa cassa con dei chiodini. Per l'apprendimento iniziale dei ragazzi, realizzava anche piccoli strumenti denominati "chitarrini", questa volta con fondo piatto.

       La costruzione delle tammorre era più complessa e impiegava un dispendio di tempo ed energie maggiori. Per prima cosa si dovevano conciare le pelli. La tecnica più usata era quella di immergerle in acqua fredda, con sale e cenere, per quattro-cinque giorni. Dopodiché si provvedeva a togliere il pelo con le unghie. A questo punto si stendevano le pelli sui cerchi, costruiti in precedenza con legni di varia natura.

      Dei secondi cerchi, di altezza più ridotta, venivano posti sui bordi superiori a bloccare il pellame, debitamente inchiodato. Le pelli venivano successivamente raschiate per una pulitura definitiva. Si provvedeva, quindi, ad eliminare con la punta del coltello il pellame residuo. Infine, si intagliavano i cerchi in orizzontale fino a formare delle piccole finestrelle a cui venivano fissati dei sonagli metallici (spesso di latta). Al loro interno, forse per aggraziare il suono, venivano posti dei campanelli.

       Tali strumenti hanno rallegrato per anni intere generazioni carpinesi e cagnanesi. Oggi Rocco Cozzola, che nella vita ha fatto un po' tutti i mestieri, dal contadino all'elettricista, dal liutaio al carpentiere, si diletta a ricreare gli strumenti del padre, mettendo su splendide chitarre battenti, tamburelli, castagnole e "zighedébù", alla mercede per lo più di turisti, studenti e specialisti del settore. Lui dice di produrre in un anno una trentina di chitarre, una cinquantina di tamburelli e qualche decina di coppie di castagnole, realizzate tutte a punta di coltello. Già contattato agli inizi degli anni '80 del Novecento dal Centro Studi Tradizioni Popolari del Gargano e della Capitanata, diretto dall'etnomusicologo Salvatore Villani, originario di Rignano Garganico, dove ha sede anche il sodalizio, per una ricerca sulla chitarra battente, in collaborazione con la cattedra di etnomusicologia dell'Università di Bologna, tenuta da Roberto Leydi, è stato recentemente riscoperto come docente nel primo stage di danze, canti e strumenti musicali della tradizione garganica, svoltosi nella cittadina rignanese nel dicembre 2002.

      Cozzola ha trasmesso la sua esperienza di ballerino, suonatore e cantatore ad oltre quaranta studiosi provenienti dal centro e dal nord Italia. Visto il successo ottenuto, sarà probabilmente coinvolto nella seconda rassegna prevista sempre a Rignano per la prossima estate. La vita di Rocco, alquanto difficile, è stata costellata, almeno così dice lui, da tanti momenti belli. Ricorda ancora perfettamente le numerose serenate eseguite in paese, per i propri amori e per gli amori dei propri amici. Ricorda, per esempio, quando durante una delle tante serenate, uno dei cantori, non proprio intonato, suscitò l'intervento estemporaneo del papà della ragazza a cui era destinato il canto, che partecipò alla canzone con la propria voce. Ad ogni serenata partecipavano mediamente dieci-quindici persone. Il committente spesso ringraziava i presenti con litri e litri di vino e tante ciambelle. Non sempre, però, le serenate avevano funzioni amorose. In effetti, venivano richiesti i cosiddetti "stramurte", meglio conosciuti come serenate di sdegno, nel corso delle quali si offendeva la donna amata, magari per un rifiuto ricevuto o per l'interruzione del fidanzamento da parte della ragazza.    

       In questo caso succedevano litigi che potevano anche sfociare in omicidi. Cozzola, per aiutare la famiglia nei campi, è stato costretto ad abbandonare gli studi in tenera età.

 

    Ha frequentato, infatti, solo la prima elementare, dove ha imparato a conoscere l'alfabeto e a far di conto. In gioventù, come accennato in precedenza, Rocco ha imparato a fare l'elettricista. Ha lavorato per anni, prima ancora che nascesse e arrivasse sul Gargano la compagnia elettrica nazionale, con la ditta Mezzanotte, percependo tuttavia un salario da fame.

      A 26 anni è convolato a nozze, sposando Vittoria Maccarone, nata a Carpino 68 anni fa, casalinga. Da questo connubio sono nati tre figli, due femmine e un maschio. Lo stipendio di elettricista, insufficiente per mandare avanti la famiglia, lo costrinse nel 1960 ad emigrare in Germania. Qui, per lunghi 17 anni, fece il  carpentiere e per un po' dimenticò di mestiere di liutaio. Mestiere che, come lui stesso ama raccontare, non scordò sotto il militare, dove mise su, con gli scarti di una falegnameria dell'esercito, una stupenda chitarra battente, che lasciò ad un amico commilitone. Al rientro in paese dalla Germania un suonatore carpinese, appena sceso dalla corriera, gli chiese di costruirgli uno strumento a corde. Fu così che Rocco riprese l'attività del padre, che tuttora non ha lasciato. Oggi i suoi strumenti continuano ad allietare suonatori garganici e italiani.

      Non è stato facile, tuttavia, riprendere a costruire strumenti musicali, anche perché al suo ritorno in patria non trovò più al loro posto gli arnesi utilizzati dal padre, morto nel 1970. Fu costretto, così, a ricomprare pian piano tutti gli utensili e a ricostruire le forme per la realizzazione delle chitarre, seguendo i disegni originali di Francesco Paolo, scolpiti indelebilmente nella sua mente. L'unico rammarico di Cozzola rimane oggi quello di non avere più discendenti interessati a proseguire questo mestiere secolare, che lui continua a svolgere quotidianamente nella sua tenuta di campagna. Infatti, né i figli, né i cinque nipoti lo hanno emulato. Lui spera, comunque, che qualcuno ci ripensi (Angelo Del Vecchio - Tratto da: La Gazzetta del Mezzogiorno - Febbraio 2003).